L'epurazione del debito bancario nella crisi d'impresa

In sede di crisi d'impresa
In relazione al Concordato Preventivo
Come specificato in premessa il contenzioso nei rapporti di rapporti di credito bancario, oltre che in ambito fallimentare, si può collocare anche in ambito di crisi d’impresa ovvero qualora l’imprenditore, al fine di evitare il fallimento, si avvale dei diversi strumenti di risoluzione di crisi d’impresa previsti dal codice fallimentare.
Segnatamente alla procedura di Concordato Preventivo disciplinato dagli art. 160 e ss LF ebbene cristallizzare l’analisi sulle diverse figure protagoniste della procedura e sulle diverse fasi di cui si caratterizza la richiamata procedura.
In ordine alle diverse fasi e alle diverse figure ebbene specificare che assumono rilevanza:
a) L’imprenditore e il Professionista che ha avuto incarico di predisporre la domanda di Concordato Preventivo;
b) l’Attestatore della domanda di Concordato Preventivo (art. 161 LF);
c) il Giudice Delegato/tribunale fallimentare;
d) il Commissario Giudiziale
Ovviamente i succitati protagonisti assumono diverso rilievo secondo la fase in cui viene promosso il contenzioso bancario in seno al concordato, infatti, le diverse fasi si possono sintetizzare in:
1) fase di deposito della domanda di pre-concordato (cd. concordato in bianco ex art. 161 c. 6 LF);
2) fase di deposito della domanda di Concordato Preventivo;
3) fase di asseverazione della domanda di Concordato Preventivo;
4) fase di ammissione del Concordato da parte del tribunale fallimentare;
5) fase di omologa del Concordato Preventivo.

I° fase. Predisposizione della domanda di concordato preventivo ex art. 160 LF.
Andando per gradi, vi è quindi una fase embrionale in cui può essere proposto il recupero degli oneri finanziari illegittimamente pagati alle banche, ed è la fase in cui, l’imprenditore che versa in stato di crisi, al fine di evitare il fallimento, decide di ricorrere al concordato preventivo ai sensi e per gli effetti dell’art. 160 lf e seguenti, come noto, ottimo strumento di risoluzione della crisi.
Ebbene, in virtù dei poteri riconosciutigli dall’ordinamento giuridico nonché in virtù dei vincoli imposti dallo stesso ordinamento in ordine ai doveri di correttezza e veridicità dei dati esposti in bilancio ha l’obbligo di accertare se il debito bancario ovvero quello desunto dalle scritture contabili unilateralmente predisposte dalla banca è certo e veritiero e per quanto tale non inquinato da voci di addebito applicate dalla banca durante lo svolgimento dei rapporti di conto corrente, precisamente:
1) Applicazione corretta dei tassi ultralegali (ex art. 117 Tub 385/93 cc. 1 e 4);
2) Applicazione corretta della clausola anatocistica (art. 120 TUB 385/93 e artt. 6 e 7 Delibera CICR 9.2.2000);
3) Applicazione corretta della clausola relativa alla commissione di massimo scoperto (art. 117 TUB 85/93, artt. 1418 comma 2 CC e 1346 CC);
4) Eventuale girocontazione illegittima di rapporti bancari correlati
5) Nullità (inefficacia) dell’esercizio relativo allo jus variandi (art. 118 TUB 385/93);
6) Superamento del tasso soglia usurario (art. 644 CP, art. 1815 CC secondo comma, L. 108/96).
Va da sé, che, qualora i saldi dei conti correnti, come sovente accade, sono inquinati dalle richiamate voci di addebito illegittimamente applicate dalla banca ai rapporti intrattenuti, l’imprenditore che si rifà sic et sempliciter alle scritture contabili della banca è evidente che espone dati non veritieri e non corretti in bilancio, non solo, in aggiunta, così facendo viola la par condicio creditorum in quanto pregiudica altri creditori (es. fornitori) per i quali, a differenza del credito bancario inquinato, il credito è certo ed esigibile, e, in ultimo, offre una visione falsata evidenziando un patrimonio inferiore a quello reale.
Quindi, obbligo dell’imprenditore è quello di predisporre accertamenti tecnici a mezzo CTP analitiche che rettifichino, sempre nel rispetto del principio prudenziale, i saldi riportati dalla banca in quanto inquinati e riportare come credito i saldi depurati semprechè gli stessi risultino ancora a debito a seguito delle rettifiche operate, infatti, molto spesso accade che, soprattutto per conti correnti datati, che il saldo a debito dell’impresa a seguito della rielaborazione contabile si ribalta a credito per l’impresa quindi nulla è dovuto all’istituto di credito.
Ebbene, però, evidenziare che la Cassazione Civile con Sentenza del 2012 nr. 13669, ha contemperato il principio di prudenza con quello del quadro fedele “true end fair view” in base al quale il bilancio deve essere redatto con chiarezza e deve rappresentare in modo veritiero e corretto la situazione patrimoniale e finanziaria della società nonché il risultato economico dell’esercizio (art. 2423 c. 2 CC); pertanto se l’imprenditore ha tutti gli elementi (contratto di conto corrente ed estratti conto) per dimostrare che il debito bancario è inferiore a quello riportato dall’estratto conto bancario ha l’obbligo non la facoltà di rappresentarlo al valore corretto e depurato.
Pertanto, alla luce di quanto esposto va da sé che nella fase di predisposizione della domanda di concordato, l’imprenditore e/o il professionista incaricato alla redazione del piano concordatario deve riportare in seno allo stesso il debito rettificato a seguito di rielaborazione dei rapporti bancari e non già quello riportato unilateralmente dall’istituto di credito.

II° fase. In fase di asseverazione del concordato da parte del professionista art. 161 lf.
Come risaputo la domanda di concordato, ai sensi e per gli effetti dell’art. 161 lf, va asseverata da un professionista incaricato che attesti la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità del piani medesimo.
Ebbene in questa fase evidenziare che, qualora l’imprenditore non abbia provveduto alla all’accertamento delle illegittimità che gravano sui conti correnti bancari e si sia erroneamente affidato alla contabilità della banca riportando quindi il debito bancario per intero senza depurarlo, inficiando e falsando in tal modo i dati esposti nel piano, tale accertamento deve essere assolutamente operato dall’asseveratore.
Infatti, il professionista incaricato all’asseverazione, ha l’obbligo, in virtù dei doveri che gravano sullo stesso, e non la mera facoltà di evidenziare la correttezza dei dati esposti, e quindi, deve necessariamente evidenziare la rappresentazione corretta del saldo bancario ovvero quello rettificato e depurato dalle varie voci di addebito rilevatesi illegittime.
Utile è chiarire che l’attestatore deve enunciare, in maniera ordinata e coerente, i criteri ricognitivi, estimativi e prognostici, in modo da rendere manifesti il percorso logico, i ragionamenti e le motivazioni su cui fonda l’attestazione.
Con specifico riguardo all’attestazione della veridicità dei dati, il giudizio dell’attestatore non può limitarsi ad una mera dichiarazione di conformità, ovvero di corrispondenza formale dei dati utilizzati per la predisposizione del piano a quelli risultanti dalla contabilità, ma, al contrario, comporta che il professionista accerti e attesti che i dati in questione siano “effettivamente reali” (cfr. in tal senso Trib. Di Firenze 9.2.2012, in Redazione Giuffrè, nonché Tribunale di Mantova 28.05.2012 doc. 7257/2012 secondo cui “il giudizio dell’attestatore di cui all’art. 161 lf, non può limitarsi alla dichiarazione di conformità della proposta ai dati contabili, dovendo, invece, desumere i dati in questione dalla realtà dell’azienda, che egli deve indagare verificando la reale consistenza dei patrimoni, esaminando e vagliando i dati che la compongono”).
Infatti secondo l’interpretazione consolidata, il concetto di “veridicità” deve essere ricondotto a quello d “rappresentazione veritiera e corretta” ex art. 2443 CC, e, quindi, deve essere inteso in termini di “corrispondenza al vero”.
In questa prospettiva, il professionista è tenuto a esaminare e verificare i singoli elementi enti contabili ed extracontrattuali su cui il piano si fonda, vale a dire tutti i dati di natura contabile, aziendalistica e giuridica rilevanti ai fini dell’attendibilità del piano.
Alla luce di quanto esposto l’attestatore ha l’obbligo di accertare:
1) Applicazione corretta dei tassi ultralegali (ex art. 117 Tub 385/93 cc. 1 e 4);
2) Applicazione corretta della clausola anatocistica (art. 120 TUB 385/93 e artt. 6 e 7 Delibera CICR 9.2.2000);
3) Applicazione corretta della clausola relativa alla commissione di massimo scoperto (art. 117 TUB 85/93, artt. 1418 comma 2 CC e 1346 CC);
4) Eventuale girocontazione illegittima di rapporti bancari correlati
5) Nullità (inefficacia) dell’esercizio relativo allo jus variandi (art. 118 TUB 385/93);
6) Superamento del tasso soglia usurario (art. 644 CP, art. 1815 CC secondo comma, L. 108/96).
e, qualora accerti, come accade sovente, in base agli elementi in suo possesso (contratto di conto corrente ed estratti conto) che il saldo riportato dalla banca è inquinato quindi è evidente che il debito bancario è inferiore a quello riportato dall’estratto conto bancario ha l’obbligo non la facoltà di rappresentarlo al valore corretto e depurato.
Particolare attenzione, l’attestatore deve prestare agli elementi di maggiore importanza in termini quantitativi (ad esempio, credito rilevanti), alle componenti del capitale circolante che generano flussi di cassa (ad esempio, scorte, crediti, debiti, ecc.), agli elementi con profili di rischio elevato ai fini dell’attestazione (ad esempio, avviamenti di assets da dismettere, Fondi di rischio e oneri); la tipologia del controllo del professionista non può prescindere dalle caratteristiche del piano. Così ad esempio, in un piano di tipo liquidatorio, il professionista dovrà accertare e attestare l’appartenenza al debitore dei beni immobili, il professionista dovrà accertare l’appartenenza al debitore dei beni immobili e degli altri cespiti e la libera disponibilità degli stessi, la effettiva esistenza e la corretta valutazione dei crediti commerciali, la effettiva presenza di giacenze di magazzino e la concreta possibilità di collocazione sul mercato.
Al fine di effettuare l’attestazione della veridicità dei dati, il professionista deve verificare la reale consistenza del patrimonio dell’azienda, esaminando e vagliando gli elementi che lo compongono; egli deve, quindi, accertare che i beni materiali ed immateriali esposti in domanda (diritti di esclusiva, brevetti, giacenze di magazzino, macchinario, beni immobili, eccetera) siano esistenti e correttamente valorizzati , anche prendendone visione diretta o, in caso di dubbio, richiedendo apposite stime (senza che ciò non lo esima da una valutazione critica); deve accertare che i crediti vantati siano esistenti e “concretamente esigibili”, in quanto relativi a debitore solvibili, effettuando le opportune verifiche (circolarizzazione del credito, esame della situazione patrimoniale del debitore, ecc.); deve accertare il valore delle partecipazioni societarie calandosi nella realtà assumendo, nel dubbio, le attività esposte al valore più basso.
Quanto alle passività, egli deve verificare che quelle esposte siano (quantomeno) quelle risultanti dalla contabilità e dagli altri documenti aziendali (non solo dal bilancio), nonché dalle informazioni che egli possa assumere presso clienti, banche, fornitori; che il debitore abbia tenuto conto, nella proposta, della natura dei crediti vantati nei suoi confronti (privilegiati o chirografari), indagando la condizione del creditore e la causa del credito; che il debitore abbia palesato l’esistenza di diritti reali di garanzia esistenti sui suoi beni; che abbia tenuto conto delle passività potenziali connesse agli obblighi contributivi o fiscali, ovvero la posizione di garanzia assunta rispetto ai lavoratori; che abbia adeguatamente considerato i rischi connessi ai contenziosi pendenti o prevedibili; che abbi risolto ( o programmato di risolvere) secondo legge e contratto i rapporti giuridici pendenti. Anche in questo caso, dovrà seguire di prudenza assumendo, nel dubbio, al valore più alto le passività accertate.
Addirittura, l’attestatore che omette la verifica di quanto innanzi e non opera quindi la rettifica dei saldi effettivamente dovuti alla banca si espone a segnalazione alla Procura della Repubblica da parte del tribunale fallimentare per gravi comportamenti segnatamente alla fattispecie delittuosa prevista e punita dall’art. 236 bis lf. con le aggravanti di cui al comma 3 (Tribunale di Benevento -maggio 2013-).


III° e IV fase. Ammissione da parte del tribunale della domanda di concordato e in fase di omologa.
Se con la votazione non si formano le maggioranze dei crediti previste dalla legge per l’approvazione del concordato, il tribunale emette il decreto di improcedibilità, il quale non è soggetto a reclamo, al pari del decreto di inammissibilità. Sebbene l’art. 179 L.F. non richiami il comma 2 dell’art. 162 L.F., questa norma è applicabile per analogia, per cui, il tribunale, se vi è apposita istanza di un creditore o del P.M. e ne accerti i presupposti, dichiara il fallimento del debitore. Ne deriva che, in caso di dichiarazione di fallimento, le doglianze riguardanti la declaratoria di improcedibilità del concordato per mancato raggiungimento delle maggioranze possono essere fatte valere soltanto attraverso il reclamo contro la sentenza dichiarativa di fallimento.
Ove invece il decreto di improcedibilità non sia accompagnato dalla dichiarazione di fallimento, nonostante si riconosca al debitore la possibilità di riproporre la domanda di concordato, esso è da ritenersi impugnabile con ricorso in cassazione ai sensi dell’art. 111 Costituzione, trattandosi di un provvedimento avente i caratteri della decisorietà e definitività ed incidendo su un diritto soggettivo del debitore alla prosecuzione della procedura di concordato.
Se, invece, con la votazione si formano le maggioranze dei crediti previste dalla legge e non vi sono opposizioni, il tribunale, seguendo il rito dei procedimenti in camera di consiglio, omologa il concordato con decreto non soggetto a reclamo. L’art. 180 comma 3 L.F. non prevede lo svolgimento di attività istruttoria, per cui normalmente la verifica da parte del tribunale si basa esclusivamente sulle risultanze degli atti e dei documenti contenuti nel fascicolo del procedimento di concordato preventivo, nonché sul parere motivato del commissario giudiziale. Ciò non toglie che il tribunale possa a norma dell’art. 738 c.p.c. nominare un consulente tecnico, segnatamente se vi sono state contestazioni in ordine all’esistenza, misura e natura dei crediti e sia necessario ai fini del controllo sull’ammissione o esclusione dei crediti in sede di votazione, quando vi sia rilevanza sull’esito della votazione del concordato (c.d. prova di resistenza). In tali limiti, quindi, il tribunale dell’omologazione, pur in assenza di opposizioni, può smentire il non corretto operato del giudice delegato, che abbia ammesso a votazione crediti bancari viziati dal calcolo di poste passive illegittime
Se, infine, il concordato viene approvato con le maggioranze previste dalla legge, il debitore, il commissario g. e gli eventuali altri creditori dissenzienti possono proporre opposizione avverso l’omologazione del concordato, ad esempio per motivi attinenti alla regolarità formale del procedimento, all’esito della votazione, alla fattibilità del piano, all’esistenza dei presupposti di ammissibilità della proposta, alla commissione di condotte fraudolente del debitore, alla convenienza della proposta sempre che in quest’ultimo caso l’opposizione provenga da creditori dissenzienti rappresentanti almeno il venti per cento dei crediti ammessi al voto.
Il giudizio di omologazione che segue alle opposizioni, pur seguendo, come tutti i giudizi concorsuali la forma camerale, ha natura contenziosa a cognizione piena e rappresenta, il primo grado di altri due eventuali gradi di giudizi, vale a dire il reclamo davanti alla Corte di Appello e il ricorso in cassazione ai sensi dell’art. 111 Cost.
Quando sono proposte opposizioni il tribunale dell’omologazione ha i poteri istruttori tipici degli ordinari giudizi, nel senso che assume, se rilevanti, le prove richieste dalle parti nonché quelle disponibili di ufficio, anche delegando per l’assunzione uno dei componenti del collegio. Vi è, quindi, ampio spazio perché possa essere richiesta o disposta di ufficio una c.t.u. contabile ricostruttiva della reale misura del credito della banca o di accertamento del credito dell’imprenditore derivante da un saldo di c/c bancario non più passivo ma attivo.
Va evidenziato che il decreto con il quale il tribunale omologa o non omologa il concordato preventivo decidendo sulle opposizioni, anche quando abbia affrontato incidentalmente questioni relative alla esistenza, misura e natura dei crediti ai fini interni del calcolo delle maggioranze necessarie per l’approvazione del concordato, non ha alcuna efficacia di giudicato sul rapporto obbligatorio relativo, che resta soggetto agli ordinari mezzi di accertamento giudiziale.
Contro il decreto del tribunale che accoglie o respinge l’omologazione, può essere proposto reclamo alla corte di appello, la quale pure pronuncia in camera di consiglio (art. 183 L.F.). Il reclamo investe la corte di appello del riesame del processo deliberativo in ordine all’accertamento dei presupposti dell’omologazione, estensibile anche ai profili non valutati dal tribunale, per cui la corte di appello potrà rimettere gli atti al tribunale per la rinnovazione di attività processuali irregolari, revocare il decreto di rigetto pronunciando l’omologazione, revocare il decreto di omologazione. In quest’ultimo caso, la corte di appello non potrà dichiarare il fallimento, ove ne sussistano i presupposti, ma dovrà rimettere gli atti al tribunale, cui è riservata tale competenza.
Il reclamante non è vincolato dalle preclusioni, decadenze e limitazioni analoghe a quelle previste dall’art. 345 c.p.c. e tipiche dell’appello, potendo allegare fatti e documenti nuovi e richiedere nuove prove.
La natura camerale c.d. ibrida del reclamo davanti alla corte di appello, consente a quest’ultima di assumere, anche di ufficio, tutti i mezzi di prova che ritiene necessari ai fini della decisione, anche in assenza di doglianze e dell’assolvimento di un specifico onere probatorio da parte del reclamante.
Non vi è dubbio alcuno, quindi, che il collegio del reclamo possa rilevare le nullità di protezione non rilevate in primo grado, disporre d’ufficio la ricostruzione contabile del rapporto bancario e giungere alla revoca del decreto di rigetto dell’omologazione, ove l’accertamento del minor credito della banca o del credito dell’imprenditore da c/c ricostruito posti a base della proposta di concordato preventivo non siano stati tenuti nella giusta considerazione dal tribunale.
Anche se non espressamente prevista, come era invece nel previgente art. 182 L.F., non si dubita dell’impugnabilità in cassazione ex art. 111 Costituzione dei decreti emessi a seguito di reclamo dalla corte di appello, quando questi abbiano i caratteri della decisorietà e della definitività, come nelle ipotesi di decreto di conferma dell’omologazione, di omologazione del concordato in prima istanza rigettato, di conferma del rigetto della domanda di concordato, quando non vi sia stata dichiarazione di fallimento. Non ha, invece, definitività, e quindi non è impugnabile in cassazione, il decreto della corte di appello che annulla il provvedimento di omologazione del tribunale e rimette a questo gli atti per la dichiarazione di fallimento, in quanto in tal caso il decreto sarà impugnabile in uno con la sentenza dichiarativa del fallimento.

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